I MIEI RICORDI CON GENOVEFFA

Genoveffa amava tutti, ma prediligeva alcuni verso i quali il suo cuore umano nutriva un affetto particolare verso cui si apriva alla confidenza, timidamente, temendo di peccare d’orgoglio, o di diffondere incautamente quel che era del suo cuore il grande segreto.

Pregava durante la notte quella sofferente e cara creatura… e dormiva assai poco verso l’alba, quando il corpo esausto, sfinito dalle sofferenze offerte al Signore, si accasciava in un assopimento che era l’unico suo sonno da tanti anni.

La Santa Comunione del mattino, che Genoveffa attendeva con ansia e che giungeva talvolta assai tardi, era la conclusione di una “notte di passione”, di una notte di sofferenza e di amore, di invocazioni e di spasimi di un corpo e di un’anima.  Non le sofferenze fisiche, infatti, che essa chiamava “doni” del Signore, le affliggevano l’anima, ma essa soffriva spiritualmente per i dolori e per le ansie del prossimo; i dolori dell’umanità tutta essa faceva suoi. Così pesarono profondamente sulla sua anima i lunghi anni della guerra, coi lutti, i dolori e le rovine che essa portò nel mondo.

***

Non di rado assistemmo a commoventi espressioni di dolore e di gioia quando genitori o altri congiunti di soldati dispersi giungevano accanto al lettuccio di Genoveffa per chiedere preghiere o per strapparle una parola di speranza nell’auspicato ritorno, del loro caro.

O il volto di Genoveffa, fiducioso, dava conforto e prometteva una preghiera che significava aver fede e fiducia. Oppure il volto di quella creatura, oscurato dal dolore raccomandava a un padre, a una madre, a una sorella… la rassegnazione alla Volontà del Signore! Più di un volta il responso della nostra creatura coincise con quello di Padre Pio, e fu per questo più commovente del solito il consiglio ispirato di Genoveffa.

“Lo stesso ci ha detto Padre Pio” ebbero a gridare in mia presenza i genitori di un bambino condannato da un male incurabile a non poter camminare più… e fortemente piansero… Genoveffa piangeva con loro e li confortava nel dolore immenso.

***

Aveva un tratto di gentilezza per tutti, aveva un portamento di riservatezza e di cortesia superiore ad ogni aspettativa. Pur essendo del tutto incolta, quella creatura che non andò mai a scuola, che non visse mai nel mondo perché all’età di 12 anni se ne separò e il suo lettuccio fu l’unico luogo da lei visto dopo di allora, aveva un’educazione superiore; si può dire di lei che , come S. Caterina da Siena, avrebbe potuto trattare con principi e sovrani!

Dove Genoveffa raffinò tanto il suo tratto?

Alla scuola della sofferenza e della Fede: l’una e l’altra forza ingentilirono il suo spirito e fecero di Lei una Creatura superiore tanto superiore a noi.

Fu materna senz’essere madre, fu saggia senz’essersi nutrita di cultura, fu intelligente senza essere dotata forse dalla natura di quell’intelligenza che dimostrò di possedere nella comprensione e nel consiglio!

Riuscì a discorrere di cose mai viste, riuscì a capire sentimenti a lei ignoti, perché scrutava il cuore, pescava addentro nell’anima.

***

Un caro amico la chiamò “mammina”, seconda mammina, usando per lei il nome più caro a tutti gli uomini: questo nome che essa ben meritava ci piacque, ma noi speriamo e ci auguriamo di cuore che l’anima di Genoveffa, già benedetta da Dio e dagli uomini che la conobbero, assurga a futuri trionfi, con nome più alto, degno di una creatura che si era tanto elevata al di spora degli uomini!

11/06/2016                                                                                                                                                                                                          (Fine)

Vittorio De Miro D’Ayeta

 

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NELLA CELLETTA DI GENOVEFFA

A chi entra nella “Porziuncola” di Genoveffa De Troia, con umiltà di fede, l’orizzonte di vita che non si scandisce nel tempo si allarga senza misura in una prospettiva dominata da una Presenza indicibile, difficile a definirsi.

L’anima intende perfettamente ciò che la ragione carnale ignora, opposta alla ragione dello Spirito. Camminiamo nella via di Emmaus con cecità ignara. La nebbia delle presunzioni mentali, delle deviazioni del cuore toglie la visibilità del Divino Spirito, che è luce dell’anima.

Guardo il lettino di Genoveffa, ne rievoco dentro di me l’immagine tra una pausa e l’altra dei Misteri del Rosario e mi sembra di capire perché, in questo letto di patimento, la Cappuccina laica, nostra amica del cielo, provasse il diletto delle  pene, le sovraumane gioie del soffrire in Cristo, nel nascondersi nell’Umanità  di Gesù Penante e della Madre Dolorosa, secondo il più puro spirito di Francesco; perchè questa Sorella minore di Padre Pio da Pietrelcina (ma non direi, minore, bensì piuttosto diversa per distanza e splendore di costellazione) fosse privilegiata del “dono” della sofferenza, per cui  - al mio sguardo - diventa oggetto di storia, realtà viva e vera quel “lectulusnoster floribus” di cui parla il Cantico dei Cantici (I,6) nella Scrittura.

Si badi, “nostro”, vale a dire: di Genoveffa e di Gesù sposo di Sangue. Amore purissimo, mistero di comunione e unione con Dio, quasi in limine et in lumine gloriae. Attimi di grazia incommensurabili, quando Dio si fa corpo di luce, la carne perde opacità e peso. Ogni misura d’uomo decade nell’uomo che si fa, per opera dello Spirito Santo, Dio di pena, Dio vero di umana pena.

Ora la sofferenza, amata con geloso riguardo come un “dono”, è il primo grado di rivelazione del Cristo nell’uomo che muore a se stesso. Genoveffa sperimentò, in rapporto alla sua fede eroica e alla grazia, questo morire d’amore sulla croce. E questo è ciò che io chiamo la vita nascosta nelle sofferenze del Cristo.

Accettare la sofferenza come dono, come felice castigo per la salvezza di sé e degli altri, in efficace reciprocità, è la perfezione che Gesù comanda. L’anima fruisce di questo dono e di questa elezione; ma non sempre è consapevole dei disegni di Dio. La rassegnazione è totale ma non è ancora “la rassegnazione del supremo Iddio”. L’anima geme nella terribile oscurità interiore dentro il bagliore del Sole. L’anima ascende a Dio e Dio discende nell’anima, nel prolungamento – per così dire -   dell’Incarnazione nelle membra vive della Chiesa.

E questa è la “perfetta letizia”, il soffrire in letizia. È perfezione consumata. Dio si fa visibile, prende immagine di Crocifisso Vivente. Trasformazione dell’Umanità riconciliata e redenta fino all’orlo della consumazione dei secoli. Poema di sangue di Padre Pio e di Genoveffa De Troia.

Così sia.

 

13/05/2016

 Gerardo De Caro

 

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LE MIE CONFIDENZE CON GENOVEFFA

Come sarei stata contenta se avessi potuto descrivere con eloquenza tutto ciò che racchiude il mio povero cuore!

Troppe cose terrei da dire! Ma la mia parola è misera e non mi resta che dare un piccolo cenno su quanto ricordo personalmente.

Infinitamente ringrazio e lodo il buon Gesù che permise fin dalla mia piccola età, di farmela conoscere, avvicinare e comprendere unitamente ai miei familiari.

Come ci voleva bene! E  quanto ce ne volevamo!

Le mie visite erano più frequenti, perché essendo la minore delle sorelle mi veniva consentito più permesso d’uscire e anche praticare i Nove primi Venerdi del mese e i quindici sabati alla SS. Vergine del Rosario.

Al solo chiamarla, prima d’entrare nella sua casa, già conosceva la mia voce.

Genoveffa non soleva ricevere il Venerdì, perche preferiva rimanere più raccolta per maggiormente pregare e stare vicino al suo Gesù che amava tanto.

A me non diceva mai niente quando ci andavo perché né la disturbavo né la distraevo con qualche futile discorso.

Negli altri giorni invece quando mi poteva parlare io mi sedevo vicino al suo lettuccio, prendevo quella morbida manina, la stringevo fra le mie con tanta tenerezza e la baciavo.

Anche lei era contenta della mia compagnia, mi sorrideva e mi accarezzava. Dio mio, sento ancora il suo tatto sulle mie guance!

Qualche volta mi parlava di Padre Pio, delle sue stimmate, delle visite spirituali che a lei faceva, della reciproca comprensione e delle grazie che intercedeva per tanti pellegrini che con cuore contrito e illuminato si raccomandavano a lei.

Altre volte mi parlava anche dei suoi doni. Chiamava doni Genoveffa le continue sofferenze che riceveva e chiedeva al buon Gesù: non nascondo che mi vergognavo confrontando le mie e con  slancio l’abbracciavo e mentre il mio animo s’infondeva di un’infinita gioia mai provata, le dicevo: Genoveffa, che anima grande e sovrannaturale è la tua!

Quanto era cara per tutti noi Genoveffa!

Chi potrà dimenticare quando ha pregato per me personalmente, quando mi ammalai a causa delle mancate notizie di mio fratello in guerra e della sua prigionia?

Una mattina sentendomi tanto male, la mamma ritornò da lei, al ritorno mi disse: -Genoveffa ti saluta tanto, mi ha detto di stare tranquilla che ancora un po’ di pazienza e tutto passerà e mise sul mio letto un involtino inviatomi da lei dopo tante insistenze.

Che cosa conteneva? Una bel grappolo d’uva bianca e delle caramelle.

A quel gesto gentile rimasi confusa e commossa pensando a lei avrebbe fatto più bene di me.

Fra il grande dispiacere di tutti Genoveffa cominciò ad aggravarsi: lei da tempo però ci aveva preannunziato la sua prossima dipartita per la Patria Celeste.

Il giorno dell’Immacolata andai a trovarla. M’incontrai anche col suo Padre Spirituale che disse che il giorno seguente si sarebbe celebrata la S. Messa.

Fui molto contenta di accettare quell’invito e la mattina seguente fui puntuale.

Sapendola ancora più grave non avevo la forza di entrare, mi sentivo stringere il cuore nel sentirla respirare a stento con l’aiuto dell’ossigeno.

Intanto in me sentivo una lotta, volevo salutarla ad ogni costo, mi sentivo poco bene e temevo di non vederla più: così fu. Mi feci coraggio e avvicinatami la baciai la solita manina ma senza proferir parola, non ebbi la forza perché tremavo tutta. L’indomani mi fu impossibile ritornare, fui colpita da una forte febbre che mi costrinse a restare a letto per parecchi giorni.

Piansi di tutto cuore per la sua dipartita e quando i miei familiari me la descrissero nel suo lettuccio di morte avrei voluto almeno sognarla.

Credetemi, Genoveffa appagò il mio vivo desiderio, e in una dolce visione me la vidi tanto vicino a me seduta sul suo lettuccio e nel mio animo si ripetè la stessa gioia come di quando era viva.

Olga Scarano

15/04/2016

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 GENOVEFFA NEL CUORE DELLE FIGLIOLIA

Sfogliando qua e là la vecchia e tanto cara raccolta “La piccola e grande Genoveffa”, capitano sotto gli occhi episodi e testimonianze di persone che hanno conosciuto e amato la nostra Genoveffa.

La lettura dei loro scritti provoca una gioia interiore e il desiderio di parteciparla a chiunque sia legato al ricordo della Venerabile. 

“Conoscemmo Genoveffa, quando venne ad abitare in Via Briglia (attuale via Genoveffa De Troia). A quel tempo già facevamo parte dell’Azione Cattolica nella chiesa di S. Giovanni Battista e il parroco, don Antonio Rosiello, ce ne segnalò la presenza.

Quando andammo, ci accorgemmo che Genoveffa era già conosciuta per le doti eccezionali di spiritualità e ricchezza d’animo, non solo dai cittadini foggiani, ma anche fuori regione.

Nel dopoguerra erano molte le famiglie bisognose, e lei diede un valido contributo nell’aiutarle, dando tutto quello che le veniva dato e strappando al Signore, con la preghiera, soluzioni a problemi disperati.

Dimenticando se stessa, ringraziava Gesù per le sofferenze che martoriavano il suo piagato corpo chiamandoli “doni”.

Accorreva gente di ogni classe sociale, culturale e politica che veniva accolta con lo stesso slancio , senza distinzione. Povera e ignorante trovava la parola giusta per rasserenare ogni animo.”

Rosa e Giulia Figliolia parlano di Genoveffa, accavallando le loro voci in una gara di parole che coloravano i ricordi ancor vivi.

La signorina Rosa tace pensierosa ed è Giulia a continuare:

“La sua carica d’amore si alimentava dell’Ostia consacrata come pane quotidiano e la preghiera come ossigeno di vita.

Quando con rammarico, ritardavamo a farle visita e ci scusavamo, Genoveffa ci rassicurava dicendo che era importante trovarci al momento della sua gloria.

E cosi fu!

Il mattino dell’11 dicembre 1949 c’informarono che Genoveffa non stava molto bene. Accorremmo sperando che non fosse nulla di preoccupante, invece la trovammo in agonia.

Accanto a lei vi erano, oltre al direttore spirituale padre Angelico, tutte le persone che lei aveva previsto si sarebbero trovate al momento della sua gloria, perfino un signore venuto da fuori città.

In questi anni, abbiamo sempre sentito la sua presenza e la sua preghiera che ci hanno aiutate a superare molte difficoltà”.

La voce della signorina Giulia si è interrotta. L’emozione le impedisce di continuare. Il silenzio nella camera, è completo. Lo avverto simile a quello della Messa nel momento dell’Elevazione. Ma questo calice è colmo delle sofferenze della nostra Genoveffa. L’offerta s’innalza al cielo per trasformarsi in amore per coloro che cercano lei perché interceda verso l’Altissimo. Mi scuoto da questo pensiero e vado verso le gentildonne per salutarle. Si alzano entrambe, mi stringono la mano. Il ricordo di Genoveffa ci unisce, lo sento dalla loro stretta, lo leggo dagli occhi umidi che mi sorridono.

Grazie, care signorine, per averci fatto partecipi di questo gran bel ricordo.

01/03/2016

Anna Cusenza

 

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GENOVEFFA E I BAMBINI

Genoveffa amava tanto i fanciulli.

Anch’essi formavano l’oggetto delle sue predilezioni e della sua continua immolazione a Dio. Nel suo letto di dolori ella svolgeva un apostolato efficace tra i fanciulli, specialmente riversando nel loro cuore tutta la sua riverenza per i Sacerdoti.

Un giorno una bambina mi disse “Voi siete come Gesù”.

“E perchè” chiesi stupito.

“Perché siete Sacerdote e Genoveffa mi ha detto che i Sacerdoti sono come Gesù”, rispose con sicurezza la bambina.

I fanciulli amavano Genoveffa: la visitavano spesso, perché provavano una grande gioia nel vedere e parlare alla “Santa”.

Ogni mattina mi accompagnavano dalla chiesa parrocchiale alla piccola Cella pregando ad alta voce Gesù che nutriva il corpo e l’anima di Genoveffa, con le sue Carni Immacolate. I fanciulli silenziosi e ordinati entravano nella piccola cella, si accalcavano perché erano in molti, cantavano l’inno di preparazione e di ringraziamento alla Comunione, restavano estasiati per il fervore della comunicanda e poi le baciavano reverentemente la mano e uscivano silenziosi e col cuore ripieno vive di gioia.

Genoveffa piangeva di consolazione e poi raccomandava ai fanciulli di essere rispettosi verso il Sacerdote e di ascoltare i suoi consigli.

In occasioni delle Prime Comunioni, conducevo bambini e bambine a pregare e cantare le sacre laudi intorno al suo letto, inginocchiati.

“Quanto ho gioito” - sussurava Genoveffa -, riferendosi alle “sposine” di Gesù e agli “angioletti” di cui ammirava l’innocenza.

Genoveffa vedeva, infatti, nei fanciulli e nelle fanciulle l’immagine della purezza e li congedava con parole di augurio, dopo averli accarezzati con tenerezza.

Nella notte di Natale 1948 nacque Natalino, povero come Gesù: non aveva panni per coprirsi. Lo dissi a Genoveffa la quale per il giorno seguente mi  regalò tutto ciò che era necessario ai bisogni di Natalino.

Genoveffa pregava tanto per i piccoli e si preoccupava tanto del loro avvenire materiale e spirituale: questa assillante preoccupazione, che ella spesso mi confidava, la rese insigne benefattrice e Apostola infaticabile della Casa del Fanciullo, istituita per gli sfrattati alle Casermette, nel territorio della sua  Parrocchia. Voleva essere continuamente informata della vita della casa, non si stancava mai di esaltarne la necessità, per la salvezza materiale e morale della gioventù, di incoraggiarmi, specialmente quando la posizione finanziaria sembrava facesse naufragare l’Opera.

Ora Genoveffa è in cielo e prega per i suoi piccoli, e dal Cielo guarda, sorride, incoraggia.

Don Antonio Rosiello 

 

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SORELLA GENOVEFFA

di Luigi Tucci

Di fuori, nel mondo, di frequente il vizio e il delitto appostati agli angoli delle vie, o un tinnire di risate, tra scomposte e soverchie, o un errare di vite che si dissolvono nell’eccesso dell’egoismo e del lusso.

Di dentro, in una stanzetta a pianterreno in Foggia, quasi a ripagarci di tanta povertà di spirito, un braccio con le giunture staccate dal corpo e un piede, ormai decomposto, seguitano ad animare, un cencio di creatura, che sta per finire, in mistica trasparenza, la sua vita eroica, una vita che mezzo secolo ha logorato e disfatto lentamente, a poco a poco, in un piccolo letto di ferro.

Questa creatura è Genoveffa De Troia, la “sorella Genoveffa” che ha ricevuto in dono, dalla nascita, il tesoro del patimento e della povertà, anche per insegnare agli uomini la legge dell’amore e della pazienza, e che un giorno, l’11 dicembre del 1949, attenderà “sora morta corporale”  per solcare lo spazio e per destarsi, ricomposta e sorridente, fra le bellezze che non hanno termine.

Una povera creatura, così piegata e stecchita come Genoveffa e intanto così colma di umanità e di vivezza, una creatura che non sa leggere nè scrivere e intanto parla alle anime e le ripulisce e le lustra, sfiorando l’eterno, che campa di elemosine e dispensa elemosine, a piene mani, fra derelitti e bisognosi e che soccorre le sue sofferenze con i lampeggiamenti e le divinazioni dello spirito, al punto che le ore della sera hanno per lei la freschezza delle ore del mattino, m’induce a pensare con Benedetto Croce che “il mondo moderno ha necessità soprattutto di un rifiammeggiante entusiasmo in una fede morale, di un risveglio di spirito cristiano”.

***

Oggi sento il bisogno di andare incontro a “sorella Genoveffa” con il ricordo più vivo, un ricordo che a volte ha la grazia di una carezza e a volte rode le fibre come una tignuola.

La rivedo inferma nel suo lettino, il volto sfiorito, e con le bende di lino che le fasciano la fronte, una parte delle gote e tutta la gola, ma con due piccoli occhi così azzurri e trèmuli di luce interiore da farmi credere, ancora, che “cerchino gemendo”, come dice Pascal.

E rivedo una specie di sacello, che raccoglie quel brendolo di carne, così pieno di anima, e le immagini dei santi appese in abbondanza alle pareti, e un piccolo altare già allestito per il sacrificio divino. E riodo una voce ferma e dolce, che scivola nei recessi del cuore di tanta misera gente che si reca da lei, nelle ore assolate del giorno o nel primo tepore della sera, per ascoltare il verbo che sorregge e conforta lo spirito e, insieme, compendia la grandezza della vita, se fatta di umiltà e di preghiera, di indigenza e di rassegnazione.

Una sera, ricordo, ella non riuscì a contenere l’impeto della sofferenza e ruppe in un lamento. Mi accostai al suo capezzale per confortarla e feci voti che il dolore non macerasse di continuo la sua fibra. Non l’avessi detto! Divenne inquieta e seppe sfiorarmi l’anima con la sapienza di questa parole: “No. Se hai pietà di me, prega Iddio perché io soffra, soffra, sempre, tutte le pene per la redenzione del mondo. Queste pene, che sanno dei doni dello Sposo, tormentano la fibra finché non siano possedute!”. Dopo, si raccolse tra i silenzi dello spirito, di nuovo tranquilla e sicura di sé, quasi raggiante di perfetta letizia.

Un’altra volta Genoveffa si avvicinò all’orecchio di una persona, cara al mio cuore, per confidarle la sofferenza che più pativa da anni in quella solitudine ripiena di luce, una sofferenza continua e mordente, tutta sua. Sentiva alle tempie la puntura di una spina che era per lei come una mistica crocifissione. Il più e il meglio della sua vita, anzi il bello della sua anima balenava in quel tormento segreto. Mjrtle Red, quando bagna la penna dentro di sé per scrivere, nel modo più egregio, che “non c’è vero dolore se non si è del tutto soli a sopportarlo”, senza dubbio attinge col pensiero le altezze dove sanno vivere, angelicamente, creature come Genoveffa!

***

Iddio non poteva darle in dono una umiltà più perfetta e una letizia più consolante delle sue sofferenze. Ed ella, ora che ha finito di cantare, come un usignuolo, le sue laudi a “frate dolore” e ha chiuso per sempre i suoi piccoli e trèmuli occhi, cerchiati di azzurro, in un velo di sonno per risplendere, tutta, in una luce suprema, ha lasciato a noi un insegnamento, un codice di sapienza spirituale, che consacra, a lettere d’oro, la certezza che la vita anche nel tomento continuo del corpo, può serbare intatta la sua freschezza e ha radici profonde, più profonde di quanto sembrino in apparenza.

La speranza che la soccorse in vita, facendole intravedere il luogo eterno degli eletti, soccorre noi in questo momento e ci anticipa il vaticinio che un giorno non lontano l’aureola dei santi ricinga il suo capo nelle ancone del tempio.

24/11/2015

 

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TESTIMONIANZA 

In uno dei libri scritti sulla vita di Genoveffa vi è riportata una lettera datata 14/02/1951 inviata all’editore del libro dall’on. Vito Galati, allora sottosegretario di Stato per le Poste e le Telecomunicazioni – che trascrivo:

«Conobbi Genoveffa due anni or sono. Ritornavo con Gerardo De Caro da San Giovanni Rotondo; giunti a Foggia, l’automobile s’inviò in certe viuzze a me sconosciute, fermandosi poi dinanzi a una casetta mezza dirupa.

De Caro, con aria un po’ trasognata mi disse: - “Sta qui Genoveffa”. Entrammo con passo lieve in una specie di stanza dalle pareti coperte da immagini di santi, fra cui spiccavano il Cuore di Gesù e una riproduzione di Santa Gemma Gargani.

Fiori mi parvero fossero intorno; ma l’attenzione fu subito attratta da un lettino bianco, su cui, seduta, sorrideva festosa una creatura tutta bianca, in un abito monacale mai da me visto. Quel viso era tutto negli occhi vivacissimi e luminosi.

Genoveffa volle che ci sedessimo. Parlò con De Caro di non so che cerimonia religiosa; disse a me parole cristiane di saluto e di promessa cristiana di preghiera in una spontaneità quasi infantile per purezza ma in cui vibrava la consapevole volontà della promessa. Stetti incantato in quella singolare dimora, quasi fuori dal mondo, osservando quella creatura, il cui corpo non appariva in altra forma che nel viso e soprattutto, nella parola.

Appunto viveva nella parola quasi squillante, di tonalità assai pura, entro cui si muoveva una gioiosità inusitata.

Eppure quell’invisibile corpo soffriva atrocemente da cinquant’anni; era vissuta e viveva solo per soffrire; ma con lo spirito potenziato a tal punto che viveva veramente solo se soffriva.

Il Cristo dell’Orto, della Colonna, della Corona di Spine, della Croce aveva operato il miracolo della redenzione, servendosi di questa come il solo strumento dello spirito cristiano.

 

Uscimmoi senza una parola, ma quella immagina era impressa, forse per sempre, nella mia memoria».

 

 

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GENOVEFFA E ASSUNTA GIANCASPERO

di Anna Rita Nicoletti

Conobbi Assunta Giancaspero1 nel 1957 in un incontro di preghiera nella casa ove visse gli ultimi anni della sua sofferta vita Genoveffa De Troia: la Celletta. Erano appena due anni che la casa di via Briglia era stata riacquistata, e ora la sua Famiglia Spirituale, numerosi fedeli e visitatori occasionali si ritrovavano in quella casa per pregare.

Avevo 17 anni ed ero una ragazza desiderosa di conoscere la vita e la figura di Genoveffa che tutti definivano la “Santa”.

Assunta Giancaspero arricchì la mia conoscenza su Genoveffa e, fra l’altro, mi parlò del suo grande amore per i poveri, i bambini e i detenuti. Consideravo Assunta Giancaspero la mia maestra di vita perciò nutrii per lei un grande affetto. Ci incontravamo periodicamente per pregare nella Celletta di via Briglia (ora via Genoveffa De Troia). Questi incontri durarono fin quando non poté più camminare per l’età e per problemi di salute.

Così, fui io ad andare a casa sua. La trovavo sempre allettata che ascoltava la radio sintonizzata sulle frequenze di “Radio Maria”, ripetendo dietro le voci radiofoniche le preghiere trasmesse. Aveva perso quasi completamente la vista ma sul suo viso vi era sempre un sorriso amico e sereno.

Nei nostri incontri parlavamo sempre di Genoveffa e lei mi raccontava come l’aveva conosciuta nel 1925, quando lei per il suo lavoro di apostolato frequentava la parrocchia di san Luigi.

Allora le condizioni parrocchiali erano disastrose. La chiesa era deserta e i protestanti minacciavano di invadere la parrocchia. Per la festa di sant’Antonio veniva portato il pane nelle molte case di gente povera del rione. Nella lista era stata inserita la famiglia di Genoveffa.

Il giorno successivo alla distribuzione la mamma di Genoveffa, una donna pia e robusta, andò in parrocchia a ringraziare del gentil pensiero e disse che quel pane aveva sollevato, per un giorno, la sua misera famiglia. Parlò a lungo della sua figliola ammalata e sofferente da molti anni; del suo grande dolore per la perdita del suo figliolo Attilio in guerra e del doloroso trasferimento, da Lucera a Foggia, avvenuto nel 1917 perché il marito aveva trovato lavoro in questa città e non riusciva a ritornare la sera a Lucera.

Raccontò che il marito aveva affittato, prima del suo arrivo, una casupola in piazza Federico II ma appena il proprietario vide che avevano una figliola ammalata, ebbe paura che si trattasse di una malattia infettiva e così le intimò di lasciare la casa al più presto possibile.

Fu tanta la paura di un possibile contagio , che fu egli stesso a pagare le spese del trasporto e anche il primo canone mensile della nuova casa in corso Giannone 105, che egli stesso aveva trovato.

Fu così che Assunta Giancaspero, avendo saputo che Genoveffa era ammalata, pensò di andarla a trovare, anche per chiedere di pregare per migliorare la situazione della parrocchia.

Dal primo incontro Assunta Giancaspero si accorse che Genoveffa era un’anima bella e buona, ingenua e profonda. Pur se illetterata aveva la dote di affrontare e rispondere su qualsiasi problema.

Le fu facile chiedere la sua collaborazione per l’opera parrocchiale che stava intraprendendo.

Genoveffa accettò, con semplicità e candore.

La parrocchia, pian piano, si riempì di fedeli. Tutti passavano anche dalla casa di Genoveffa, per cercare e trovare conforto. Ogni problema, anche quello più difficile e doloroso, vicino a quel lettino di sofferenza, trovava sollievo. A tutti donava un sorriso, una carezza e una buona parola.

Il suo cuore, di madre e di sorella, insegnò (a molti) a chinare il capo dinanzi alla volontà del Signore e a pronunciare il “fiat” dell’accettazione.

Quella casa divenne un “Santuario”.

Ad Assunta Giancaspero, che a Genoveffa aveva insegnato i grandi segreti della preghiera e le aveva fatto conoscere san Francesco e diventare terziaria, fu consigliato di diradare le visite, giacché Genoveffa era stata conquistata da Gesù. Genoveffa si rassegnò di vederla di rado, perché la sapeva occupata anche fuori Foggia. Ma quando la sentiva arrivare, la riceveva con le braccia aperte e la gioia le traspariva dagli occhi, dal viso dalle parole. L’abbracciava e ai presenti, come per giustificarsi, chiedeva scusa di quelle manifestazioni dicendo che Assunta era la sua “mammina” spirituale.

Assunta Giancaspero mi ripeteva sempre, con una punta di nostalgia, che Genoveffa per lei era ancora viva. La sentiva vicina più che mai ed era sicura delle sue preghiere e della sua protezione.

 

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1  Assunta Giancaspero (1899-1998)fu una

colonna del laicato femminile della diocesi

di Foggia. Seppe coniugare perfettamente

la consacrazione con la secolarità nella sua

vita di ogni giorno. In famiglia, nella profes-

sione, nel campo ecclesiale, civile e politico

seppe condurre i suoi molteplici  impegni

 

fino in fondo con virtù e santità. 

 

16/10/2015

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POETA NEL CUORE

Scrivere e leggere su Genoveffa, ci porta in un mondo fatto di poesia.

Per la prima volta nella vita, la sofferenza non è angoscia, gli stenti, la povertà e le malattie non sono avversità ma sono ‘doni’.

La vista di una povera malata non opprime,ma dà serenità, gioia, coraggio e conforto. Ogni cuore afflitto che si rivolge a lei ne trae beneficio.

Le preghiere recitate ogni giorno da una piccola bimba malata, e poi … da una donna allettata, nei periodi burrascosi della prima e della seconda guerra mondiale, hanno fatto sì che in questa piccola figura umile e ignorante, tante persone trovassero un riferimento importante e consolatore.

In quei periodi un notevole numero di persone non aveva più notizie dei propri cari e non sapeva cosa fare. Rivolgersi a lei, era un modo nuovo per scoprire e affrontare il dolore e la forza di sperare.

Questa è Genoveffa che Dio pose tra la gente del tempo in cui l’Italia viveva la sua distruzione e contava i suoi morti. Quella bimba, quella piccola donna malata seppe dare a tutti qualcosa, seppe affiancare le nostre madri e le nostre nonne.

Ma non è solo di questo che vi voglio parlare, mi piacerebbe scoprire come fu Genoveffa bambina, e lo trovo nei primi capitoli del libro ‘Il segreto della vita’ ove l’autore, il professor Gargiulo, ricorda nella sua biografia, di quanto conobbe Genoveffa e come la sua giovane età e i suoi problemi lo portarono a frequentare quella piccola donna assiduamente, e come da lei ne ebbe giovamento.

Questi eventi risalgono al giugno 1938.

In uno di quegli incontri Genoveffa volle raccontargli un episodio della sua infanzia. Raccontò che in quel periodo sua madre aveva scoperto le sue prime piaghe e preoccupata l’aveva portata dal medico. Il medico, tra l’altro, le aveva prescritto i bagni di sole.

Cosi il padre, che era guardia campestre, la portava presso “il castello” che si erge sulla parte più alta di Lucera e lì la piccola Genoveffa, si sedeva a terra e giocava con la bambola che le era stata regalata da una sua amica coetanea.

Una di queste volte, era stata attratta da una formica che faceva le sue provviste, ed eseguiva il suo lavoro con molto scrupolo, mentre le altre formiche più piccole,forse i suoi figlioletti, l’aiutavano.

Lo spettacolo era commovente e la faceva riflettere sulla grandezza di Dio e sulla perfezione della Sua natura e come un così piccolo animale potesse essere più previdente e laborioso di tanti uomini, e come ogni essere fosse stato destinato a fare una mansione così precisa.

Ammirava quelle formiche e le seguiva con lo sguardo e quando qualche ostacolo si frapponeva sul loro cammino cercava di allontanarlo e le sembrava che esse la ringraziassero.

Era così intenta e felice che non sentì suo padre avvicinarsi, vide solo il suo piede calpestare quell’animaletto che scomparve. La sua vita era spezzata.

I suoi piccoli scampati alla tragedia, parevano impazziti, scappavano per ogni dove.

Genoveffa si buttò sul piede di suo padre, lo strinse forte e si mise a piangere disperatamente, come se le avessero strappato un pezzo della sua carne. Il padre non capì né avrebbe potuto capire: pensò che fosse stata presa da uno di quei dolori fortissimi, perciò la prese fra le braccia e la portò a casa.

 

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fra Daniele e la Venerabile Genoveffa De Troia[1]

L’uomo è santo nella misura in cui risponde all’amore di Dio, intuisce i segni dei tempi e vive in conformità alla divina volontà. La Venerabile Genoveffa De Troia e fra Daniele Natale, entrambi francescani sulla terra e ora entrambi anche al cospetto di Dio, sono sempre attuali, come attuale è l’eterno nostro contemporaneo Francesco d’Assisi. Genoveffa è stata definita una « missionaria del dolore»; in realtà aveva un sorriso dolcissimo, una semplicità sorprendente e un compagno inseparabile di viaggio : il dolore. I visitatori vedevano in lei un modello cui guardare e al quale affidarsi.

Durante la seconda guerra mondiale e nei primi anni del dopo guerra, fra Daniele Natale faceva il questuante/cuoco nel convento di Sant’Anna a Foggia. In tale periodo divenne assiduo frequentatore e benefattore di Genoveffa, dalla quale imparò a pregare, soffrire, offrire e sorridere nelle pene.

Fra Daniele incontrava la Poverella di via Briglia (ora via Genoveffa De Troia) in Foggia anche quando si recava al mercato «Ginnetto» per l’acquisto di quella merce che raramente trovava nel più vicino mercato coperto nella zona di via Arpi. E, vista la miseria che regnava in casa De Troia, sempre e volentieri lasciava «qualcosa» di quello che portava nella sua bisaccia. A sua volta, Genoveffa dava ai poveri che bussavano alla porta di casa sua quanto ricevuto: di gente bisognosa ce n’era tanta in quel tempo di guerra e del primo dopo guerra anche a Foggia.

Genoveffa e fra Daniele erano per così dire «compagni di viaggio molto ricercati» dalla gente, perché erano sempre pronti a incoraggiare nel nome di Gesù, di Maria, di san Francesco e di padre Pio.

 Ora più di prima Genoveffa e fra Daniele sono pronti a aiutare e indicare a chi è nella prova come si può essere sereni in questa «valle di lacrime e pianto». Oggi non sono pochi coloro che vogliono cambiare il mondo tagliando «le radici» e ripartendo in conformità ai «nuovi valori», coloro che vivono alla giornata, e altri ancora che sono impegnati ad interpretare il presente e a progettare meglio il futuro.

 Fra Daniele spesso ammoniva: «attenzione agli spiritelli». Lasciando intuire che per il bene dell’anima e per la crescita spirituale bisogna affidarsi ai grandi spiriti. E indicava padre Pio e Genoveffa De Troia. Esortando a seguirli con fiducia e serenità perché, oltretutto, essi possedevano la vera letizia francescana e godevano della divina gioia.

 L’umile frate cappuccino (fra Daniele) era convinto che sotto la cenere delle cose futili e inutili di ogni giorno, arde il fuoco divino acceso dal battesimo e ravvivato dagli altri sacramenti, dalla parola di Dio, dalla preghiera e dai buoni esempi delle anime giuste; e suggeriva ai foggiani una visita alla Celletta  di Genoveffa, sicuro che lo spirito divino soffiava per disperdere la cenere ed evidenziare  il fuoco santo dell’amore alimentato nel tempo con la preghiera e la sofferenza, per la gloria di Dio e la salvezza dei fratelli.

 Una sessantenne ricorda compiaciuta che le bambine degli anni ´40 che frequentavano il convento di Sant’Anna a Foggia, dove risiedeva fra Daniele, erano sollecitate a mettere da parte i soldini che ricevevano in occasione delle grandi feste e a spenderli in dolcetti da offrire a Genoveffa malata e povera, la quale, puntualmente, li distribuiva ai fanciulli più poveri che andavano a farle visita.

È bello ricordare queste cose, com’è bello continuare a seguire il consiglio di fra Daniele: visitare spesso la Celletta di Genoveffa. Fa bene all’anima!

 


[1] Tratto da: “fra Daniele Natale- racconta … le sue esperienze con Padre Pio” di padre Remigio Fiore

 

 

 

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TESTIMONIANZA

Buongiorno padre Fortunato, sono Adele Mellone e le scrivo da Barletta.

Sono una ragazza appartenente all’OFS della mia zona e sono a chiederle e raccontarle una cosa molto particolare.

È da qualche tempo che io con la mia famiglia stiamo vivendo un periodo un po’ doloroso perché a mio fratello Salvatore dopo alcuni accertamenti medici, gli hanno diagnosticato un problema piuttosto serio all’esofago. Lui è un sacerdote che è stato ordinato il 16 aprile 2015. Sta affrontando la cosa molto serenamente dando forza e coraggio a noi tutti della famiglia. Preghiamo tanto insieme a lui e cerchiamo di sostenerlo sempre, anche se i momenti bui a volte si fanno sentire.

Arrivo subito al motivo per cui le scrivo.

Il giorno 30 giugno 2014 andammo per alcuni esami a Bari e la sera prima io feci un sogno a cui mi sono aggrappata  con tutte le mie forze. Ho sognato che stavo camminando per le vie di Barletta con mio fratello e ad un certo punto ci siamo fermati perché nei pressi del nostro quartiere stavano inaugurando una chiesa intitolata a Santa Genoveffa. Ricordo che la prima cosa che ho pensato è stata: che nome strano,  e mi è venuta in mente subito Santa Genoveffa di Parigi, santa che già conoscevo. Questo sogno l’ho tenuto per me, un po’ sperando che fosse un segno.

Poi, qualche giorno dopo parlando con mia nonna le ho raccontato il mio sogno e lei che è una devota di Padre Pio e segue sempre Padre PioTV mi ha raccontato che qualche tempo fa hanno trasmesso una messa in onore della venerabile Genoveffa originaria di Lucera, tra l’altro francescana.

Io sono rimasta senza parole e grazie ad internet ho subito cercato informazioni e ho trovato il sito della venerabile con tutte le notizie biografiche. Ed oggi sono qui a scriverle.

Non le nascondo che un po’ il cuore batteva e devo anche confidarle che ho provato anche un po’ di serenità. Ho visto anche che costantemente avete degli appuntamenti fissi di preghiera, così ho pensato di scriverle queste poche righe anche e soprattutto per chiedere a Lei e a quanti si riuniscono in preghiera di mettere nelle vostre intenzioni mio fratello Salvatore. Spero che la venerabile Genoveffa conceda a me e alla mia famiglia tanta serenità per il futuro che vediamo un po’ nero. Chiedo anche alla venerabile tanta speranza che illumini il nostro cammino.

Adele Mellone

Da Bollettino ufficiale della Vice Postulazione per la Causa di canonizzazione della Venerabile Genoveffa De Troia – Anno IV n.1/2015    

 

Nota in margine

Don Salvatore Mellone, il “presbitero per grazia di Dio” è “nato in cielo” ieri 29 giugno e ha insegnato a tutti noi –al pari di Genoveffa, della quale era devoto, - “quanto la sofferenza sia uno strumento della volontà di Dio”.

 

I funerali si terranno oggi 30 giugno alle 16.30 nella chiesa del Santissimo Crocifisso presieduti dall’arcivescovo mons. Giovanni Battista Pichierri.

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Alla  famiglia le nostre condoglianze unite alla preghiera.

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HO CONOSCIUTO UNA SANTA

Mi chiamo Nicola Capparelli, sono nato a Foggia il 29 agosto del 1928. Era da poco terminata la seconda guerra mondiale, una guerra che ha particolarmente distrutto la città di Foggia e ha portato terrore in tutti noi, costretti a scappare nei rifugi antibombe o nei paesi limitrofi. Non ancora diciottenne ho perso mio padre, Capparelli Gioacchino, con una malattia che lo ha immobilizzato in breve tempo. Mia madre rimase sola ad accudire e crescere me con altri sette figli, pertanto ho sentito da subito il bisogno di aiutare la famiglia cercandomi un lavoro che potesse permetterci di comprare un po’ di pane. Mio zio, Petruccelli Francesco Paolo, fratello di mia madre Petruccelli Elena, aveva a quel tempo un grosso banco di frutta al mercato “Ginnetto” e siccome era una persona di buon cuore e vedendo che ero un ragazzo di buona volontà, mi propose di aiutarlo nella vendita della frutta insieme con uno dei miei fratelli, Capparelli Pasquale. Mio zio Francesco Paolo si riforniva da un grande committente del mercato all’ingrosso della frutta, tale Bruno Floriano, altra persona di buon cuore. Bruno Floriano era amico e molto affezionato a Genoveffa De Troia, per questo spesso quando ci riforniva della merce, ci diceva di preparare un cesto pieno della miglior frutta e di portarlo in dono a Genoveffa, costretta dalla sua malattia all’immobilità nel letto. 

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